“Vi spiego cos’è la fibromialgia e perché mi batto per i diritti di chi ne soffre”

“La differenza tra me e te è che tu, al mattino, salvo eccezioni, ti svegli riposata. Io, per quanto possa dormire, mi sento sempre come se mi fosse passato un tir addosso.” È così che Pietrina Oggianu, 53 anni, sarda, madre single, autrice e donna con fibromialgia, cerca di farmi capire cosa significhi per lei convivere ogni giorno, anno dopo anno, con questa patologia.

“Mi hanno diagnosticato la malattia nel 2016. Erano mesi che provavo dolori lancinanti alla spalla sinistra, che si stavano diffondendo in tutto il corpo. Ho avuto fortuna, perché non succede a molte: ho trovato un reumatologo capace che, alla prima visita, ha scritto sulla diagnosi fibromialgia, sindrome da dolore cronico diffuso. Era la prima volta che sentivo questo nome,” racconta Pietrina.
Ai medici non piace, perché è una di quelle patologie con un quadro clinico complesso e ancora poco compreso: “La chiamano la malattia dai 100 sintomi, e non esistono test specifici: si diagnostica per esclusione. Se trovi uno specialista bravo, ti ascolta, verifica i ‘tender points’ e valuta la presenza di altri sintomi associati”.

È una malattia che costringe a sviluppare un rapporto intimo, strettissimo, con il dolore: rigidità a muscoli e tendini, affaticamento, ma anche appannamento mentale – la cosiddetta fibrofog– e depressione grave. Durante l’intervista mi “rimprovera” perché avrebbe preferito che le avessi mandato prima le domande: “Chi è nella mia condizione può confondersi facilmente, dimenticare le cose. Non vorrei dire fesserie su un argomento così importante”. Ci prendiamo delle pause e cerco di metterla a suo agio il più possibile, eppure Pietrina mi sembra tutt’altro che confusa: è lucidissima mentre racconta come è riuscita a trasformare la malattia in una missione. Ha scritto un romanzo, Avrei voluto urlare, (Edizioni Del Faro) come gesto politico e di sopravvivenza, e con la sua associazione, Algea, porta avanti campagne di sensibilizzazione. Insieme ad altre associazioni combatte anche un’importante battaglia legale per il riconoscimento dei diritti delle persone con fibromialgia.
“La fibromialgia è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 1992. In Italia si stima che ne soffrano almeno due milioni di persone, perlopiù donne,” mi spiega Pietrina. Eppure le tappe per arrivare a un reale riconoscimento sono state numerose e diluite nel tempo.
Nel frattempo, la maggior parte delle pazienti ha continuato a subire un gaslighting medico spietato: “Non veniamo credute. Non solo dai medici, ma dall’intera società. È difficile lavorare, essere individui attivi. Si ha bisogno di assistenza, cure mediche, supporto. Invece ci viene detto che non abbiamo nulla, che non vogliamo lavorare, che siamo lamentose o pazze.” Il riconoscimento legale è stato lento proprio a causa di questo pregiudizio diffuso, alimentato dall’ignoranza.
“Nel 2005 si è formata l’AISF, la prima associazione di pazienti fibromialgici. Hanno dovuto cominciare da zero, spiegando all’opinione pubblica che non si trattava di un generico malessere, ma di una patologia totalmente invalidante. Ci sono voluti anni di attivismo, campagne, perfino scioperi della fame, e il sostegno di alcuni attori istituzionali attenti, per arrivare nel 2021 all’inserimento della fibromialgia tra gli argomenti di interesse della Commissione LEA, ovvero dei livelli essenziali di assistenza sanitaria.” Solo nel 2025 è arrivato finalmente un doppio decreto di aggiornamento dei LEA – fermo dal 2017 e che è ancora in forma di bozza – che ha riconosciuto la fibromialgia come malattia cronica, inserendo un codice identificativo, lo 068. “È solo un numero, ma sai cosa significa per me? Che posso finalmente avere tutte le cure di cui ho bisogno gratuitamente: non solo farmaci, ma anche terapie riabilitative, rieducazione motoria di gruppo, supporto psicologico, e visite con vari specialisti, dal reumatologo al gastroenterologo. Per la fibromialgia è fondamentale una terapia multidisciplinare, che ha un costo che io, non potendo lavorare, non posso permettermi”.
Proprio in questi giorni il DPCM passerà al vaglio del Ministero dell’Economia, che ne verificherà la sostenibilità finanziaria; si passerà poi all’approvazione della Conferenza Stato-Regioni e infine alla firma del Presidente del Consiglio. “È sicuramente un passo avanti, perché d’ora in avanti nessun medico o infermiere potrà più dirmi che è solo nella mia testa,” spiega Pietrina. Ma aggiunge: “Questa legge non ha soddisfatto le associazioni per due motivi. Innanzitutto, prevede l’esenzione solo per i casi gravi, cioè solo per il 17% dei pazienti totali. Io ho questa fortuna – che non auguro a nessuno – perché ho una diagnosi del centro di eccellenza del Niguarda di Milano, che attesta la mia forma grave.
Ma chi non rientra tra i pazienti ‘di serie A’ non avrà accesso a professionisti e cure di qualità, se non può permettersele.” A questo si aggiunge il fatto che, tra i tredici disegni di legge presentati, l’unico che non è stato preso in considerazione è stato quello stilato proprio da un’associazione di pazienti fibromialgici che quindi conoscono bene il problema: “la delusione per questa mancanza di ascolto è stata forte”, racconta Pietrina. La fibromialgia è stata inserita in un disegno di legge che include altre malattie completamente diverse e prevede solo un quadro normativo molto scarno. Questo la dice lunga sul disinteresse di fondo verso una patologia che, invece, richiederebbe un testo unico e specifico, con linee guida valide su tutto il territorio nazionale. Si crea così uno scenario a macchia di leopardo, in cui alcune regioni – come la Toscana, la Valle d’Aosta e la Sardegna – garantiscono tutele più incisive, sostegno economico e programmi regionali dedicati: “I pazienti residenti in Sardegna 800 euro annui, una sola volta, senza garanzia di rinnovo. Non è molto, ma è un inizio. È un risultato dovuto agli sforzi del consigliere regionale Fausto Piga, che ha affrontato forti ostilità e perfino derisione per le richieste di riconoscimento”. “Alcuni coraggiosi politici si battono per noi: tra questi Ilenia Zambito, Silvio Magliano, Paola Boldrini, tutte persone che ho conosciuto e incontrato nelle mie presentazioni. Sono spesso soli, mentre dovrebbe esserci uno sforzo nazionale. E non stiamo chiedendo la luna: chiediamo smart working, formazione specifica per il personale medico e sanitario, investimenti nella ricerca.” Sembra evidente che questa restrizione sia dettata dalla volontà politica di contenere le spese. “Per le armi i soldi ci sono, ma forse la salute interessa meno,” mi dice a denti stretti Pietrina. Le ricadute sociali di questa malattia ancora non le conosciamo davvero, anche per via della sua natura silenziosa. Ma potrebbero essere più gravi di quanto immaginiamo. È una patologia che rivela un tessuto sociale fragile: “Io mi sono ammalata in seguito a una violenza domestica, che mi ha lasciato un trauma addosso. La mia infanzia difficile aveva già creato un terreno fertile per la malattia. Come me, tante donne sono semplicemente lasciate sole. Quattro anni fa una donna si è suicidata perché non le hanno riconosciuto nulla: né un sussidio né alcuna cura. Aveva 33 anni, era senza soldi e aveva una figlia, come me. Non ne ha parlato nessun giornale. L’ultima cosa che ha scritto è stata: Vi lascio, spero che il mio gesto possa significare qualcosa.” È una malattia che dice “ahia” dalla mattina alla sera, e ha bisogno di ascolto ed empatia, proprio come la vulvodinia e l’endometriosi. “Eppure, ancora oggi mi capita, alla cassa, di chiedere di passare avanti perché magari non mi reggo in piedi, e sento commenti sprezzanti: ‘Ah certo, lei è invalida, e io cosa dovrei dire?’” Per questo Pietrina gira l’Italia raccontando la sua storia, per diffondere una cultura della comprensione del dolore. “Io non voglio vivere all’ombra, nascondendomi. Voglio solo trovare un posto nella società, essere creduta, ascoltata e curata. Lo vogliamo tutte.” Non tutte hanno la forza e l’istinto di sopravvivenza di Pietrina, ma tutte hanno dovuto sviluppare risorse che non sapevano di avere. L’altro nome della fibromialgia è la sindrome di Atlante, il titano condannato a sorreggere il mondo. Finisco l’intervista pensando che forse, ora, tocca a noi – come società – togliere questo mondo di dolore dalle spalle delle persone che soffrono di fibromialgia.
repubblica